Circa 17 anni fa, portai mia figlia — che allora aveva appena 2 anni — in uno di quei posti pieni di giochi “intelligenti”, pensati per stimolare i bambini con attività strutturate e materiali studiati. Il biglietto d’ingresso era pure piuttosto salato, ma ero convinta che sarebbe valsa la pena: mi ero immaginata di vederla divertirsi come fanno tutti i bambini, correndo da un gioco all’altro.
E invece no.
Mia figlia ignorò completamente ogni attrazione e si innamorò perdutamente… di una semplice riga gialla dipinta sul pavimento.
La seguiva con lo sguardo e con il corpo, danzandoci sopra, correndole accanto, come se quella linea potesse condurla in mondi sconosciuti. Curve, controcurve, capriole d’anima. Era completamente rapita, e io… folgorata.
In quel momento, ho capito una cosa che non ho più dimenticato:
la meraviglia vera non si può progettare a tavolino,
non ha bisogno di effetti speciali.
Può nascere da un niente, se quel niente incontra lo sguardo giusto.
Da lì è iniziato un pensiero silenzioso che mi ha accompagnata per anni:
Come sarebbe la mia vita se potessi assistere ogni giorno a quella scintilla negli occhi delle persone?
Come sarebbe un luogo che custodisce e nutre quella meraviglia?
Ho iniziato a immaginare uno spazio capace di accogliere le intuizioni più piccole e più grandi. Un luogo dove si possa giocare molto, molto seriamente. Dove anche una riga gialla sul pavimento possa diventare genio.
Quel pensiero oggi ha un nome.
Si chiama Doidè.